aux évêques sur le Motu Proprio "Traditionis custodes"
de François
Date de publication : 16/07/2021

Texte original

LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

AI VESCOVI DI TUTTO IL MONDO PER PRESENTARE 

IL MOTU PROPRIO «TRADITIONIS CUSTODES» 

SULL’USO DELLA LITURGIA ROMANA

ANTERIORE ALLA RIFORMA DEL 1970


Roma, 16 luglio 2021


Cari Fratelli nell’Episcopato,


come già il mio Predecessore Benedetto XVI fece con Summorum Pontificum, anch’io intendo accompagnare il Motu proprio Traditionis custodes con una lettera, per illustrare i motivi che mi hanno spinto a questa decisione. Mi rivolgo a Voi con fiducia e parresia, in nome di quella condivisione nella «sollecitudine per tutta la Chiesa, che sommamente contribuisce al bene della Chiesa universale», come ci ricorda il Concilio Vaticano II [1].

Sono evidenti a tutti i motivi che hanno mosso san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a concedere la possibilità di usare il Messale Romano promulgato da san Pio V, edito da san Giovanni XXIII nel 1962, per la celebrazione del Sacrificio eucaristico. La facoltà, concessa con indulto della Congregazione per il Culto Divino nel 1984 [2] e confermata da san Giovanni Paolo II nel Motu proprio Ecclesia Dei del 1988 [3], era soprattutto motivata dalla volontà di favorire la ricomposizione dello scisma con il movimento guidato da Mons. Lefebvre. La richiesta, rivolta ai Vescovi, di accogliere con generosità le «giuste aspirazioni» dei fedeli che domandavano l’uso di quel Messale, aveva dunque una ragione ecclesiale di ricomposizione dell’unità della Chiesa.

Quella facoltà venne interpretata da molti dentro la Chiesa come la possibilità di usare liberamente il Messale Romano promulgato da san Pio V, determinando un uso parallelo al Messale Romano promulgato da san Paolo VI. Per regolare tale situazione, Benedetto XVI intervenne sulla questione a distanza di molti anni, regolando un fatto interno alla Chiesa, in quanto molti sacerdoti e molte comunità avevano «utilizzato con gratitudine la possibilità offerta dal Motu proprio» di san Giovanni Paolo II. Sottolineando come questo sviluppo non fosse prevedibile nel 1988, il Motu proprio Summorum Pontificum del 2007 intese introdurre in materia «un regolamento giuridico più chiaro» [4]. Per favorire l’accesso a quanti – anche giovani –, «scoprono questa forma liturgica, si sentono attirati da essa e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia» [5], Benedetto XVI dichiarò «il Messale promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B.  Giovanni XXIII come espressione straordinaria della stessa lex orandi», concedendo una «più ampia possibilità dell’uso del Messale del 1962» [6]. 

A sostenere la sua scelta era la convinzione che il tale provvedimento non avrebbe messo in dubbio una delle decisioni essenziali del Concilio Vaticano II, intaccandone in tal modo l’autorità: il Motu proprio riconosceva a pieno titolo che «il Messale promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino» [7]. Il riconoscimento del Messale promulgato da san Pio V «come espressione straordinaria della stessa lex orandi» non voleva in alcun modo misconoscere la riforma liturgica, ma era dettato dalla volontà di venire incontro alle «insistenti preghiere di questi fedeli», concedendo loro di «celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B.  Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa» [8]. Lo confortava nel suo discernimento il fatto che quanti desideravano «trovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia», «accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II ed erano fedeli al Papa e ai Vescovi» [9]. Dichiarava inoltre infondato il timore di spaccature nelle comunità parrocchiali, perché «le due forme dell’uso del Rito Romano avrebbero potuto arricchirsi a vicenda» [10]. Perciò invitava i Vescovi a superare dubbi e timori e a ricevere le norme, «vigilando affinché tutto si svolga in pace e serenità», con la promessa che «si potevano cercare vie per trovare rimedio», nel caso fossero «venute alla luce serie difficoltà» nell’applicazione della normativa dopo «l’entrata in vigore del Motu proprio» [11].

A distanza di tredici anni ho incaricato la Congregazione per la Dottrina della Fede di inviarVi un questionario sull’applicazione del Motu proprio Summorum Pontificum. Le risposte pervenute hanno rivelato una situazione che mi addolora e mi preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire. Purtroppo l’intento pastorale dei miei Predecessori, i quali avevano inteso «fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente» [12], è stato spesso gravemente disatteso. Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni.

Mi addolorano allo stesso modo gli abusi di una parte e dell’altra nella celebrazione della liturgia. Al pari di Benedetto XVI, anch’io stigmatizzo che «in molti luoghi non si celebri in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura venga inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale porta spesso a deformazioni al limite del sopportabile» [13]. Ma non di meno mi rattrista un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”. Se è vero che il cammino della Chiesa va compreso nel dinamismo della Tradizione, «che trae origine dagli Apostoli e che progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo» (DV 8), di questo dinamismo il Concilio Vaticano II costituisce la tappa più recente, nella quale l’episcopato cattolico si è posto in ascolto per discernere il cammino che lo Spirito indicava alla Chiesa. Dubitare del Concilio significa dubitare delle intenzioni stesse dei Padri, i quali hanno esercitato la loro potestà collegiale in modo solenne cum Petro et sub Petro nel concilio ecumenico [14], e, in ultima analisi, dubitare dello stesso Spirito Santo che guida la Chiesa.

Proprio il Concilio Vaticano II illumina il senso della scelta di rivedere la concessione permessa dai miei Predecessori. Tra i vota che i Vescovi hanno indicato con più insistenza emerge quello della piena, consapevole e attiva partecipazione di tutto il Popolo di Dio alla liturgia [15], in linea con quanto già affermato da Pio XII nell’enciclica Mediator Dei sul rinnovamento della liturgia [16]. La costituzione Sacrosanctum Concilium ha confermato questa richiesta, deliberando circa «la riforma e l’incremento della liturgia» [17], indicando i principi che dovevano guidare la riforma [18] . In particolare, ha stabilito che quei principi riguardavano il Rito Romano, mentre per gli altri riti legittimamente riconosciuti, chiedeva che fossero «prudentemente riveduti in modo integrale nello spirito della sana tradizione e venga dato loro nuovo vigore secondo le circostanze e le necessità del tempo» [19]. Sulla base di questi principi è stata condotta la riforma liturgica, che ha la sua espressione più alta nel Messale Romano, pubblicato in editio typica da san Paolo VI [20] e riveduto da san Giovanni Paolo II [21]. Si deve perciò ritenere che il Rito Romano, più volte adattato lungo i secoli alle esigenze dei tempi, non solo sia stato conservato, ma rinnovato «in fedele ossequio alla Tradizione» [22]. Chi volesse celebrare con devozione secondo l’antecedente forma liturgica non stenterà a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano, in particolare il canone romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti.

Un’ultima ragione voglio aggiungere a fondamento della mia scelta: è sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la “vera Chiesa”. Si tratta di un comportamento che contraddice la comunione, alimentando quella spinta alla divisione – «Io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; io sono di Cefa; io sono di Cristo» –, contro cui ha reagito fermamente l’Apostolo Paolo [23]. È per difendere l’unità del Corpo di Cristo che mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei Predecessori. L’uso distorto che ne è stato fatto è contrario ai motivi che li hanno indotti a concedere la libertà di celebrare la Messa con il Missale Romanum del 1962.  Poiché «le celebrazioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è “sacramento di unità”» [24], devono essere fatte in comunione con la Chiesa. Il Concilio Vaticano II, mentre ribadiva i vincoli esterni di incorporazione alla Chiesa – la professione della fede, dei sacramenti, della comunione –, affermava con sant’Agostino che è condizione per la salvezza rimanere nella Chiesa non solo “con il corpo”, ma anche “con il cuore” [25].

Cari fratelli nell’Episcopato, Sacrosanctum Concilium spiegava che la Chiesa «sacramento di unità» è tale perché è «Popolo santo adunato e ordinato sotto l’autorità dei Vescovi» [26]. Lumen gentium, mentre ricorda al Vescovo di Roma di essere «perpetuo e visibile principio e fondamento di unità sia dei vescovi, sia della moltitudine dei fedeli», dice che Voi siete «visibile principio e fondamento di unità nelle vostre Chiese locali, nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa cattolica» [27].

Rispondendo alle vostre richieste, prendo la ferma decisione di abrogare tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le consuetudini precedenti al presente Motu Proprio, e di ritenerei libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, come l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano. Mi conforta in questa decisione il fatto che, dopo il Concilio di Trento, anche san Pio V abrogò tutti i riti che non potessero vantare una comprovata antichità, stabilendo per tutta la Chiesa latina un unico Missale Romanum. Per quattro secoli questo Missale Romanum promulgato da san Pio V è stato così la principale espressione della lex orandi del Rito Romano, svolgendo una funzione di unificazione nella Chiesa. Non per contraddire la dignità e grandezza di quel Rito i Vescovi riuniti in concilio ecumenico hanno chiesto che fosse riformato; il loro intento era che «i fedeli non assistessero come estranei o muti spettatori al mistero di fede, ma, con una comprensione piena dei riti e delle preghiere, partecipassero all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente» [28]. San Paolo VI, ricordando che l’opera di adattamento del Messale Romano era già stata iniziata da Pio XII, dichiarò che la revisione del Messale Romano, condotta alla luce delle più antiche fonti liturgiche, aveva come scopo di permettere alla Chiesa di elevare, nella varietà delle lingue, «una sola e identica preghiera» che esprimesse la sua unità [29]. Questa unità intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano.

Il Concilio Vaticano II, descrivendo la cattolicità del Popolo di Dio, rammenta che «nella comunione ecclesiale esistono le Chiese particolari, che godono di tradizioni proprie, salvo restando il primato della cattedra di Pietro che presiede alla comunione universale della carità, garantisce le legittime diversità e insieme vigila perché il particolare non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva» [30]. Mentre, nell’esercizio del mio ministero al servizio dell’unità, assumo la decisione di sospendere la facoltà concessa dai miei Predecessori, chiedo a Voi di condividere con me questo peso come forma di partecipazione alla sollecitudine per tutta la Chiesa. Nel Motu proprio ho voluto affermare come spetti al Vescovo, quale moderatore, promotore e custode della vita liturgica nella Chiesa di cui è principio di unità, regolare le celebrazioni liturgiche. Spetta perciò a Voi autorizzare nelle vostre Chiese, in quanto Ordinari del luogo, l’uso del Messale Romano del 1962, applicando le norme del presente Motu proprio. Spetta soprattutto a Voi operare perché si torni a una forma celebrativa unitaria, verificando caso per caso la realtà dei gruppi che celebrano con questo Missale Romanum.

Le indicazioni su come procedere nelle diocesi sono principalmente dettate da due principi: provvedere da una parte al bene di quanti si sono radicati nella forma celebrativa precedente e hanno bisogno di tempo per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II; interrompere dall’altra l’erezione di nuove parrocchie personali, legate più al desiderio e alla volontà di singoli presbiteri che al reale bisogno del «santo Popolo fedele di Dio». Al contempo Vi chiedo di vigilare perché ogni liturgia sia celebrata con decoro e fedeltà ai libri liturgici promulgati dopo il Concilio Vaticano II, senza eccentricità che degenerano facilmente in abusi. A questa fedeltà alle prescrizioni del Messale e ai libri liturgici, in cui si rispecchia la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II, siano educati i seminaristi e i nuovi presbiteri.

Per Voi invoco dal Signore Risorto lo Spirito, perché vi renda forti e fermi nel servizio al Popolo che il Signore vi ha affidato, perché per la vostra cura e vigilanza esprima la comunione anche nell’unità di un solo Rito, nel quale è custodita la grande ricchezza della tradizione liturgica romana. Io prego per voi. Voi pregate per me.   


FRANCESCO


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[1] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Sulla Chiesa “ Lumen gentium”, 21 novembre 1964, n.  23: AAS 57 (1965) 27.

[2] Cfr. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali “Quattuor abhinc annos”, 3 ottobre 1984: AAS 76 (1984) 1088-1089.

[3] GIOVANNI PAOLO II, Litt. Ap. Motu proprio datae “ Ecclesia Dei”, 2 luglio 1988: AAS 80 (1998) 1495-1498.

[4] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 796.

[5] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 796.

[6] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 797.

[7] BENEDETTO XVI, Litt. Ap. Motu proprio datae “ Summorum Pontificum”, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 779.

[8] BENEDETTO XVI, Litt. Ap. Motu proprio datae “ Summorum Pontificum”, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 779.

[9] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 796.

[10] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 797.

[11] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 798.

[12] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 797-798.

[13] BENEDETTO XVI, Epistula Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani, 7 luglio 2007: AAS 99 (2007) 796.

[14] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa “ Lumen gentium”, 21 novembre 1964, n.  23: AAS 57 (1965) 27.

[15] Cfr.  ACTA ET DOCUMENTA CONCILIO OECUMENICO VATICANO II APPARANDO, Series I, Volumen II, 1960.

[16] PIO XII, Litt. Encyc. “ Mediator Dei et hominum”, 20 novembre 1947: AAS 39 (1949) 521-595.

[17] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “ Sacrosanctum Concilium”, 4 dicembre 1963, nn.  1, 14: AAS 56 (1964) 97.104.

[18] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “ Sacrosanctum Concilium”, 4 dicembre 1963, n. 3: AAS 56 (1964) 98.

[19] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “ Sacrosanctum Concilium”, 4 dicembre 1963, n.  4: AAS 56 (1964) 98.

[20] MISSALE ROMANUM ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, editio typica, 1970.

[21] MISSALE ROMANUM ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum Ioannis Pauli PP. II cura recognitum, editio typica altera, 1975; editio typica tertia, 2002; (reimpressio emendata, 2008).

[22] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “ Sacrosanctum Concilium”, 3 dicembre 1963, n. 3: AAS 56 (1964) 98.

[23]  1Cor 1,12-13.

[24] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “ Sacrosanctum Concilium”, 3 dicembre 1963, n.  26: AAS 56 (1964) 107.

[25] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Sulla Chiesa “ Lumen gentium” 21 novembre 1964, n.  14: AAS 57 (1965) 19.

[26] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “ Sacrosanctum Concilium”, 3 dicembre 1963, n.  6: AAS 56 (1964) 100.

[27] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Sulla Chiesa “ Lumen gentium”, 21 novembre 1964, n.  23: AAS 57 (1965) 27.

[28] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. sulla sacra liturgia “ Sacrosanctum Concilium”, 3 dicembre 1963, n.  48: AAS 56 (1964) 113.

[29] PAOLO VI, Costituzione apostolica  Missale Romanum (3 aprile 1969), AAS 61 (1969) 222.

[30] Cfr. CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. Sulla Chiesa “ Lumen gentium”, 21 novembre 1964, n.  13: AAS 57 (1965) 18.

Texte Français

Lettre aux évêques sur le Motu Proprio 

"Traditionis custodes"



Traduction : (c) Agence Zenit (cliquez ici)



Chers frères dans l’épiscopat,


Comme mon prédécesseur Benoît XVI l’a fait avec Summorum Pontificum, j’ai moi aussi l’intention d’accompagner le Motu proprio Traditionis custodes d’une lettre, pour illustrer les raisons qui m’ont conduit à cette décision. Je m’adresse à vous avec confiance et avec franchise (parrhesia, en grec, ndltr), au nom de ce partage du « souci de toute l’Église, qui contribue par excellence au bien de l’Église universelle », comme le rappelle le Concile Vatican II [1].

Les motifs qui ont poussé saint Jean-Paul II et Benoît XVI à accorder la possibilité d’utiliser le Missel Romain promulgué par saint Pie V, publié par saint Jean XXIII en 1962, pour la célébration du Sacrifice eucharistique sont évidentes pour tous. La faculté, accordée par indult de la Congrégation pour le culte divin en 1984 [2] et confirmée par saint Jean-Paul II dans le Motu proprio Ecclesia Dei de 1988 [3], était avant tout motivée par la volonté de favoriser la recomposition du schisme avec le mouvement guidé de Mgr Lefebvre. La demande, adressée aux Évêques, d’accueillir avec générosité les « justes aspirations » des fidèles qui demandaient l’usage de ce Missel, avait donc une raison ecclésiale de recomposition de l’unité de l’Église.

Cette faculté a été interprétée par beaucoup au sein de l’Église comme la possibilité d’utiliser librement le Missel Romain promulgué par saint Pie V, déterminant une utilisation parallèle au Missel Romain promulgué par saint Paul VI. Pour régler cette situation, Benoît XVI est intervenu sur la question des années plus tard, règlementant un fait interne à l’Église, à savoir que de nombreux prêtres et de nombreuses communautés avaient « utilisé avec gratitude la possibilité offerte par le Motu proprio » de saint Jean-Paul II. Soulignant combien cette évolution n’était pas prévisible en 1988, le Motu proprio Summorum Pontificum de 2007 entendait introduire « une réglementation juridique plus claire » [4]. Pour favoriser l’accès de ceux – même jeunes -, « qui découvrent cette forme liturgique, se sentent attirés par elle et y trouvent une forme particulièrement appropriée pour eux, de rencontre avec le Mystère de la Très Sainte Eucharistie » [5], Benoît XVI a déclaré « le Missel promulgué par saint Pie V et de nouveau publié par le bienheureux Jean XXIII comme une expression extraordinaire de la même lex orandi« , accordant une « possibilité plus large d’utiliser le Missel de 1962 » [6].

A l’appui de son choix il y avait la conviction que cette disposition ne remettrait pas en doute l’une des décisions essentielles du Concile Vatican II, en en minant ainsi l’autorité : le Motu proprio reconnaissait pleinement que « le Missel promulgué par Paul VI est l’expression ordinaire de la lex orandi de l’Église catholique de rite latin » [7]. La reconnaissance du Missel promulguée par saint Pie V « comme une expression extraordinaire de la lex orandi elle-même » ne voulait en aucune manière méconnaître la réforme liturgique, mais était dictée par le désir de répondre aux « prières insistantes de ces fidèles », leur permettant de « célébrer le Sacrifice de la Messe selon l’édition typique du Missel Romain promulgué par le bienheureux Jean XXIII en 1962 et jamais abrogé, comme forme extraordinaire de la Liturgie de l’Église »[8]. Il était conforté dans son discernement par le fait que ceux qui désiraient « retrouver la forme, qui leur est chère, de la sainte Liturgie », « acceptaient clairement le caractère contraignant du Concile Vatican II et étaient fidèles au Pape et aux évêques » [9]. Il déclarait également infondée la crainte de scissions dans les communautés paroissiales, parce que « les deux formes de l’usage du Rite Romain auraient pu s’enrichir mutuellement » [10]. C’est pourquoi il invitait les évêques à surmonter les doutes et les peurs et à recevoir ces normes, « en veillant à ce que tout se passe dans la paix et dans la sérénité », avec la promesse que « l’on pouvait chercher des voies pour trouver un remède »,  au cas où « des difficultés sérieuses auraient vu le jour » dans l’application de la normative après « l’entrée en vigueur du Motu proprio » [11].

Treize ans plus tard, j’ai chargé la Congrégation pour la doctrine de la foi de vous adresser un questionnaire sur l’application du Motu proprio Summorum Pontificum. Les réponses parvenues ont révélé une situation douloureuse qui m’inquiète, ce qui me confirme la nécessité d’intervenir. Malheureusement, l’intention pastorale de mes prédécesseurs, qui avaient voulu « faire tous leurs efforts afin que tous ceux qui ont vraiment un désir d’unité aient la possibilité rester dans cette unité ou de la retrouver » [12], a été souvent gravement négligée. La possibilité offerte par saint Jean-Paul II et avec une  magnanimité encore plus grande par Benoît XVI afin de recomposer l’unité du corps ecclésial dans le respect des différentes sensibilités liturgiques a été utilisée pour augmenter les distances, durcir les différences, construire des oppositions qui blessent l’Église et en entravent la progression, en l’exposant au risque de divisions.

Je suis également attristé par les abus de part et d’autre dans la célébration de la liturgie. Comme Benoît XVI, je stigmatise moi aussi le fait que « dans de nombreux endroits on ne célèbre pas de façon fidèle aux prescriptions du nouveau Missel, mais qu’il soit même compris comme une autorisation ou même une obligation à la créativité, qui conduit souvent à des déformations à la limite de ce qui est supportable » [13]. Mais je ne suis pas moins attristé par une utilisation instrumentale du Missale Romanum de 1962, toujours plus caractérisée par un refus croissant non seulement de la réforme liturgique, mais du Concile Vatican II, avec l’affirmation infondée et insoutenable qu’il aurait trahi la Tradition et la « vraie Église ». S’il est vrai que le chemin de l’Église doit être compris dans le dynamisme de la Tradition, « qui tire son origine des Apôtres et qui progresse dans l’Église sous l’assistance de l’Esprit Saint » (DV 8), le Concile Vatican II, au cours duquel l’épiscopat catholique s’est mis à l’écoute pour discerner le chemin que l’Esprit indiquait à l’Église, constitue l’étape la plus récente de ce dynamisme. Douter du Concile, signifie douter des intentions mêmes des Pères, qui ont exercé leur pouvoir collégial de façon solennelle cum Petro et sub Petro au concile œcuménique [14], et, en dernière analyse, c’est douter de l’Esprit-Saint lui-même qui guide l’Église.

Le Concile Vatican II justement éclaire le sens du choix de revoir la concession permise par mes prédécesseurs. Parmi les voeux que les Évêques ont indiqué avec le plus d’insistance, émerge celui de la participation plénière, consciente et active de tout le Peuple de Dieu à la liturgie [15], dans la ligne de ce qu’a déjà affirmé Pie XII dans l’encyclique Mediator Dei sur le renouveau de la liturgie [16]. La constitution Sacrosanctum Concilium a confirmé cette requête, en délibérant sur « la réforme et la croissance de la liturgie » [17], en indiquant les principes qui devraient guider la réforme [18]. En particulier, il a établi que ces principes concernaient le Rite Romain, tandis que pour les autres rites légitimement reconnus, il demandaient qu’ils soient « prudemment révisés de manière intégrale dans l’esprit de la saine tradition et qu’on leur donne une vigueur nouvelle selon les circonstances et les besoins du temps » [19]. C’est sur la base de ces principes, qu’a été conduite la réforme liturgique, qui a sa plus haute expression dans le Missel Romain, publié in editio typica par saint Paul VI [20] et révisé par saint Jean-Paul II [21]. On doit donc considérer que le Rite Romain, adapté plusieurs fois au cours des siècles aux nécessités des époques, a non seulement été conservé, mais renouvelé « dans le respect fidèle de la Tradition » [22]. Quiconque désirerait célébrer avec dévotion selon la forme liturgique précédente n’aura aucune difficulté à trouver dans le Missel Romain réformé selon l’esprit du Concile Vatican II, tous les éléments du Rite Romain, en particulier le canon romain, qui constitue un des éléments les plus caractéristiques.

Il y a au fondement de mon choix une dernière raison que je veux ajouter : la relation étroite entre le choix des célébrations selon les livres liturgiques précédant le Concile Vatican II et le rejet de l’Église et de ses institutions au nom de ce qu’ils considèrent comme la « vraie Église » est toujours plus évidente dans les paroles et dans les attitudes de beaucoup . Il s’agit d’un comportement qui contredit la communion, en nourrissant cette incitation à la division – « Je suis à Paul ; Moi, au contraire, à Apollos ; Je suis de Céphas ; Je suis du Christ » – contre laquelle l’apôtre Paul a réagi fermement [23]. C’est pour défendre l’unité du Corps du Christ que je me vois contraint de révoquer la faculté accordée par mes prédécesseurs. L’usage déformé qui en a été fait est contraire aux motifs qui les ont conduits à leur accorder la liberté de célébrer la messe avec le Missale Romanum de 1962. Puisque « les célébrations liturgiques ne sont pas des actions privées, mais des célébrations de l’Église, qui est « sacrement de l’unité » » [24], elles doivent se faire en communion avec l’Église. Le Concile Vatican II, tout en réaffirmant les liens extérieurs d’incorporation à l’Église – la profession de la foi, des sacrements, de la communion – affirmait avec saint Augustin que c’est une condition pour le salut que de demeurer dans l’Église non seulement « par le corps », mais aussi « par le cœur » [25].

Chers frères dans l’épiscopat, Sacrosanctum Concilium expliquait que l’Église « sacrement de l’unité » est telle parce qu’elle est le « Peuple saint rassemblé et ordonné sous l’autorité des évêques » [26]. Lumen gentium, tout en rappelant à l’Évêque de Rome d’être « le principe perpétuel et visible et le fondement de l’unité à la fois des évêques et de la multitude des fidèles », dit que vous êtes le « principe visible et le fondement de l’unité dans vos Églises locales, à partir desquelles il existe la seule et unique Église catholique » [27].

Répondant à vos demandes, je prends la ferme décision d’abroger toutes les normes, les instructions, les concessions et habitudes antérieures au Motu Proprio actuel, et de considérer les livres liturgiques promulgués par les Saints Pontifes Paul VI et Jean-Paul II, conformément aux décrets du Concile Vatican II, comme la seule expression de la lex orandi du Rite Romain. Je suis conforté dans cette décision par le fait qu’après le Concile de Trente, saint Pie V a également abrogé tous les rites qui ne pouvaient se réclamer d’une antiquité prouvée, en établissant un seul Missale Romanum pour toute l’Église latine. Pendant quatre siècles, ce Missale Romanum promulgué par saint Pie V fut ainsi l’expression principale de la lex orandi du Rite Romain, remplissant une fonction d’unification dans l’Église. Pour ne pas contredire la dignité et la grandeur de ce Rite, les Evêques réunis en concile œcuménique ont demandé qu’il soit réformé ; leur intention était que « les fidèles n’assistent pas au mystère de la foi comme des étrangers ou des spectateurs muets mais, qu’avec une pleine compréhension des rites et des prières, ils participent à l’action sacrée consciemment, pieusement et activement » [28]. Saint Paul VI, rappelant que le travail d’adaptation du Missel Romain avait déjà été commencé par Pie XII, a déclaré que la révision du Missel Romain, conduite à la lumière des sources liturgiques les plus anciennes, avait pour but de permettre à l’Église d’élever, dans la variété des langues, « une seule et même prière » qui exprime son unité [29]. C’est cette unité que j’ai l’intention de rétablir dans toute l’Église de Rite Romain.

En décrivant la catholicité du Peuple de Dieu, le Concile Vatican II rappelle que « dans la communion ecclésiale il existe les Églises particulières, qui jouissent de leurs propres traditions, restant sauve la primauté de la chaire de Pierre qui préside à la communion universelle de la charité, garantit les diversités légitimes et en même temps veille à ce que le particulier non seulement ne nuise pas à l’unité, mais plutôt qu’il la serve » [30]. Alors qu’en exerçant mon ministère au service de l’unité, je prends la décision de suspendre la faculté accordée par mes prédécesseurs, je vous demande de partager ce poids avec moi comme une forme de participation à ma sollicitude pour toute l’Église. Dans ce Motu proprio, j’ai voulu affirmer comment il appartient à l’Evêque, en tant que modérateur, promoteur et gardien de la vie liturgique dans l’Eglise dont il est le principe d’unité, de régler les célébrations liturgiques. C’est donc à vous qu’il appartient d’autoriser dans vos Eglises, en tant qu’Ordinaires du lieu, l’usage du Missel Romain de 1962, en appliquant les normes de ce Motu proprio. C’est surtout à vous qu’il appartient de travailler pour qu’on revienne à une forme de célébration unitaire, en vérifiant au cas par cas la réalité des groupes qui célèbrent avec ce Missale Romanum.

Les indications sur comment procéder dans les diocèses sont principalement dictées par deux principes : d’une part, pourvoir au bien de ceux qui sont enracinés dans la forme de célébration précédente et ont besoin de temps pour revenir au Rite Romain promulgué par les saints Paul VI et Jean-Paul II ; d’autre part, interrompre l’érection de nouvelles paroisses personnelles, plus liées au désir et à la volonté de certains prêtres qu’au besoin réel du « saint peuple de Dieu fidèle ». En même temps, je vous demande de veiller à ce que chaque liturgie soit célébrée avec dignité et avec fidélité aux livres liturgiques promulgués après le Concile Vatican II, sans excentricités qui dégénèrent facilement en abus. Les séminaristes et les nouveaux prêtres doivent être éduqués à cette fidélité aux prescriptions du Missel et aux livres liturgiques, qui reflètent la réforme liturgique souhaitée par le Concile Vatican II.

Pour vous, j’invoque l’Esprit du Seigneur ressuscité, afin qu’il vous rende forts et fermes dans le service du Peuple que le Seigneur vous a confié, afin que, par vos soins et par votre vigilance, il exprime la communion même dans l’unité d’un seul Rite, dans lequel est gardée la grande richesse de la tradition liturgique romaine. Je prie pour vous. Vous, priez pour moi.


FRANÇOIS


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